Paola, ti garantisco che, almeno in ambito tecnico-scientifico, girare le spalle agli studenti stranieri “impoverisce il pensiero” molto di più della sostituzione di una proposizione subordinata con una coordinata. “A topological space X is called a locally compact space if for every x ∈ X there exists a neighbourhood U of the point x such that cl(U) is a compact subspace of X.” si capisce bene anche se non è prosa né di Tacito né di Cicerone, e non impoverisce il pensiero di nessuno.
]]>La maggior parte di chi deve comunicare con persone di svariati paesi del globo, tuttavia, stranamente reputa più pratico imparare a padroneggiare una sola lingua, e dedicare il resto del tempo al nocciolo del proprio lavoro. Magari in un futuro non lontano questa lingua “universale de facto” sarà il cinese, ma al momento attuale è l’inglese ad avere questo ruolo.
Le lezioni di matematica in inglese a cui ho assistito io non saranno state uno spettacolo di ortoepia, ma hanno fatto il loro sporco lavoro di trasmettere sapere a italiani, iraniani, indiani e vietnamiti assieme.
]]>Sono poche le discipline in cui l’italiano può vantare di essere parlato dagli specialisti di tutto il mondo. Storia della letteratura italiana, storia dell’arte (per via dell’arte italiana dei secoli passati), forse le lettere antiche, magari pure archeologia (romana). Per tutto quello che non ha direttamente a che fare con il passato del Belpaese, si può tranquillamente usare la lingua franca internazionale, per rimanere in contatto con con il resto del pianeta Terra.
]]>b) Impoverimento? Quali altezze vertiginose della consecutio temporum si crede che si debbano toccare, per spiegare chiaramente, poniamo, la “Caratterizzazione fotometrica di dispositivi di illuminazione e materiali“? Quali competenze linguistiche (che non gli siano già indispensabili per leggere le migliori riviste scientifiche della sua disciplina) mancano, al docente italico di architettura o ingegneria, per tenere una lezione accettabile in inglese?
]]>Si tratta sempre di comunicare efficientemente un sapere (tecnico, nel caso del Politecnico di Milano, e della lavastoviglie) ad una platea che si vuole più vasta ed internazionale possibile.
Platea che altrimenti può optare per la concorrenza, ché i brillanti studenti cinesi, indiani, etc. (e i brillanti professori tedeschi, statunitensi, svedesi etc.) non sono affatto obbligati a scegliere l’Italia come meta – o ad acquistare la lavastoviglie con le istruzioni solo in italiano…
P.S. A proposito dell’italiano “molto ricercato all’estero” secondo De Simone: me le immagino proprio, queste folle di ingegneri dell’Andhra Pradesh e di matematici del Guangdong che fanno a pugni pur di partecipare ad un corso di italiano! Il Fiume delle Perle e il Golfo del Bengala si tingono di sangue, in nome della lingua del Belpaese…
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