Questo articolo è stato pubblicato su Libri e Riviste d’Italia a commento dell’incontro che la Mondadori aveva tenuto esattamente un anno fa, nell’ottobre del 2007, al Residence Ripetta, per riferire sui dati dell’inchiesta IPSOS a proposito dello stato del libro e della lettura. L’associazione degli editori (AIE), riunitasi qualche giorno fa al San Michele, ha esaminato più o meno la stessa questione. I problemi rilevati dagli editori sono certamente molti, ma uno sembra essere quello più inquietante. Specialmente se lo collochiamo nel quadro di destabilizzazione attuale, che vede gli insegnanti attaccati su molti fronti. Stando all’autorevole parere di molti, editori e giornalisti in particolare, con l’aggiunta di qualche politico, sembra che la scarsa simpatia per la lettura degli Italiani sia tutta da addebitare alla scuola.
È possibile che i professori allontanino dalla lettura con pratiche didattiche sbagliate? O che non la includano affatto nei percorsi di studio? O non è vero piuttosto che il libro e la lettura vanno scomparendo dalle scuole superiori e dall’università, a prescindere dalla volontà dei docenti?
Ai mei venticinque lettori di sempre ripropongo il mio articolo di commento di un anno fa, che vale anche per la discussione del Forum degli Editori dei giorni scorsi.
Una piccola nota: l’Istituto per il libro si chiama ora Centro del Libro ed è in attesa di ridefinizione; il decreto istitutivo del minsitro Rutelli, che lo rendeva autonomo dalla Direzione Generale per le Biblioteche e gli Istituti Culturali, è stato rimandato indietro dalla Corte dei Conti.
LETTURA SI, LETTURA NO
A PROPOSITO DI INSEGNANTI SUL BANCO DEGLI IMPUTATI
Libri e riviste d’Italia – 5/2007 – Anno III n.s., novembre-dicembre
ANNA MATTEI
Premessa sconfortante
“Nel nostro Paese, come ci confermano i dati della nostra ricerca, mancano delle politiche stabili per l’incremento della lettura: il piacere di prendere un libro in mano continua ad essere un fenomeno fortemente condizionato e condizionabile quasi esclusivamente dall’offerta editoriale.”
Il secco rilievo è di Gian Arturo Ferrari, direttore generale della Divisione libri Mondadori, che al Residence Ripetta in Roma, il 5 ottobre scorso, ha parlato dello stato di salute del libro e del mercato editoriale, esponendo i dati di una rilevazione biennale dell’Ipsos sul numero e sulla qualità dei lettori. In flessione, a quanto è stato detto, rispetto all’ultima rilevazione del 2005, che era stata un po’ più ottimistica grazie alle vendite del Codice da Vinci e al boom dei libri distribuiti in edicola con i quotidiani.
I dati attuali non sono confortanti. Il mercato editoriale italiano pare che sia il sesto del mondo, eppure, stando alle cifre, un’alta percentuale di cittadini non legge nemmeno un libro all’anno. Più della metà della popolazione. Il 62%.
A complicare la questione si potrebbe aggiungere che, in compenso, però, tutta l’Italia scrive, e citare a riprova le dichiarazioni di un noto politico, che, intervistato per l’uscita del suo secondo romanzo, ha dichiarato con fermezza di non trovare il tempo per leggere.
Ferrari nel suo discorso non ha omesso i giudizi critici, supportandoli con grafici e numeri. Ha fatto notare che, tra quel 62% di non lettori, un buon 20% ha un pessimo ricordo delle letture scolastiche. Ha rimarcato inoltre lo scarso impegno dello Stato che non investe sufficienti risorse finanziarie sulla promozione della lettura, come invece fa l’Inghilterra, che attua una politica di “prevenzione” con ottimi risultati. E all’esempio fatto da Ferrari si potrebbe affiancare quello della Francia che, con il suo Centre national du livre, promuove su tutto il territorio nazionale iniziative di provata efficacia.
Dopo Ferrari, quasi chiamato in causa, è intervenuto Luciano Scala, direttore generale per i Beni librari e gli istituti culturali del Ministero per i beni culturali, per affermare vigorosamente il contrario. E cioè che, nell’ambito di sua competenza, attraverso l’Istituto per il libro, si realizzano progetti importanti come “Ottobre, piovono libri”, di concerto con gli enti locali, per dare comunicazione e visibilità alle attività di promozione della lettura realizzate in Italia. A giudizio di Scala, lo Stato, almeno per quanto riguarda il suo comparto, investe non poche risorse e ad altre cause andrebbe quindi imputato l’italico disamore per la lettura. Forse proprio alla scuola, ipotizza, almeno a dar fede alle dichiarazioni di quel 20% all’interno del 62% dei non lettori.
A quel punto alcuni tra i presenti, sollecitati dall’esplicito riferimento, sono intervenuti a vario titolo indicando negli insegnanti italiani i responsabili della fuga dal libro.
La scuola italiana fa leggere fino a tredici anni
Responsabili i professori, dunque, del declino morale e culturale del Paese. Responsabili anche degli incidenti automobilistici, e con qualche fondamento, dato che a loro è demandata l’educazione stradale, come il Ministero della pubblica istruzione si preoccupa ogni anno di ricordare agli insegnanti riottosi e perplessi sulle competenze loro attribuite d’imperio. Senonchè, lo stesso Ministero che si preoccupa della motorizzazione omette qualunque indicazione in materia di educazione alla lettura. L’educazione alla lettura in Italia è espressamente prevista e impartita solo fino al compimento dei tredici anni, cioè fino al termine della scuola media.
Per comprendere meglio il problema sarebbe interessante, infatti, estendere la ricerca dell’Ipsos ai ragazzi di quella fascia d’età. Si scoprirebbe, come qualcuno ha già fatto, che una buona parte dei lettori in erba, assai ben avviati dagli insegnanti della fascia dell’obbligo, viene ricacciata ignobilmente tra i non lettori nel passaggio alla scuola superiore, dove il libro non trova più spazio. E, se questo avviene, è a causa di una semplice omissione, di cui nessuno fa mai parola, nonostante sia stata più volte evidenziata, in particolare dagli italianisti (sia della scuola secondaria che dell’Università), che subiscono l’assenza del libro e la deprivazione della lettura con maggiori danni.
Di fronte al problema non bisogna dimenticare che, nei programmi ministeriali che riguardano le scuole superiori, si danno solo indicazioni vaghe sui libri e la lettura, al contrario di quel che si fa per la fascia dell’obbligo, come se le buone abitudini e le competenze fossero date una volta per tutte e definitivamente acquisite negli otto anni di elementari e medie.
Nel corso dei cinque anni successivi (e peggio ancora nei tre-più-due anni dell’università) i libri escono semplicemente di scena e sopravvivono solo i manuali, secondo un’ottica semplificatoria che riduce lo studio ai contenuti di base.
Alla Matematica basterà il manuale di Matematica, alla Storia il manuale di Storia, alle Scienze il manuale di Scienze, all’Italiano il manuale di Italiano e così via. Mai che si apra uno spiraglio sul libro, che non sia qualche capitolo carpito qua e là.
In questo stato di cose , i danni non si avvertono subito, ma si aggravano nel tempo. Per esempio quando, tra una soglia e l’altra (biennio/triennio; liceo/università), si verifica che molti giovani, messi di fronte a scritture non precotte come quelle dei pur rispettabili manuali, hanno serie difficoltà di comprensione testuale.
“Falso…” – direbbe irritato qualche preside e anche qualche insegnante – “Nella mia scuola si legge… si fa questo e si fa quello…”.
“Nella mia, cara collega, si fa anche di più … Il catalogo dei libri in rete, il laboratorio di lettura…”
Vero. Una gran parte del lavoro didattico, infatti, secondo i principi dell’autonomia, viene demandata al cosiddetto Pof (Piano di offerta formativa), che già nel suono onomatopeico fa pensare all’inevitabile naufragio. Chiunque abbia esperienza di insegnamento, anche universitario, sa bene quanto la cosiddetta autonomia sia minata alle fondamenta dalla scarsità dei mezzi e soprattutto dalla indeterminatezza con cui nel nostro Paese si celebrano spesso le nozze con le buone intenzioni, il più delle volte senza nemmeno i fichi secchi.
Vero è che ci sono molte lodevoli iniziative sulla lettura in varie scuole superiori, ma è vero anche che sono rare e preziose eccezioni nell’assenza di interventi istituzionali sulle strutture, sugli organici, sull’ordinamento didattico.
Un dato di fatto è che nella quasi totalità delle scuole mancano gli spazi, le persone, i modi e i mezzi, per consentire e promuovere la lettura, come una buona biblioteca di classe per l’attività quotidiana e una di istituto con un addetto che la renda fruibile e accessibile di mattina e pomeriggio. E va aggiunto che, se anche tutto questo ci fosse, non ci sarebbe comunque modo di servirsene dato che l’ordinamento didattico attuale non consente che si faccia lezione al di fuori dell’aula.
Tornando ai libri, i grandi assenti dalla scuola superiore italiana, se proprio i docenti li vogliono utilizzare, che lo facciano pure, ma che se li portino da casa e a loro rischio e pericolo. Nessuno li prescrive, è vero, ma chi li vieta?
“Perbacco… e i genitori?”- esclamerebbe preoccupato qualche prof, il quale spesso corrisponde a una professoressa, con tutto quel che ne consegue sul piano dell’apprezzamento culturale e sociale – “Dove li mettiamo i genitori che non sono mai d’accordo sull’eccessivo lavorio delle meningi dei figli, soprattutto quando la suddetta fatica intellettuale non è espressamente indicata dai programmi ma nasce solo da una pericolosa inclinazione dell’insegnante?”
“Costano troppo,”- obietterebbero – “sono troppo difficili, inadatti a un giovane, sottraggono tempo allo studio… quello serio… Tutto quel tempo perso nella lettura fa abbassare il voto dell’esame di stato che può servire per le ammissioni all’Università. Saremo costretti a cambiare scuola… a sceglierne una più facile dove il 100 è assicurato.”
Per non parlare della drammatica caduta della lettura all’Università, dove, con lo schema dei moduli e dei crediti introdotto dalle ultime riforme, le pagine dei libri vengono dissezionate e conteggiate con cura perché non si eccedano i limiti “sindacali” prestabiliti.
In tutte le facoltà – ovviamente anche in quella di Lettere con maggior dolore – si leggono solo capitoli e parti dissezionate di saggi e di testi letterari, invece che libri interi. E allora tagli su tagli, antologie di fotocopie da pagina a pagina, peggio che al liceo, dove il professore almeno si irriterebbe qualora gli studenti gliele chiedessero con eccessiva petulanza.
Con questi presupposti come stupirsi della caduta della lettura che si verifica esattamente tra i 15 e i 24 anni, proprio negli anni che comprendono gli studi superiori fino all’università? E come stupirsi della sua ripresa, tra i 25 e i 34 anni, quando finalmente si chiude l’epoca dei manuali e dei testi sbranati?
E il piacere della lettura? La colpa è di Manzoni…
In Italia non si legge perché la scuola non fa leggere, dicono alcuni con aria di rimprovero. Grave. Ma altri dicono che in Italia non si legge perché la scuola fa leggere.Gravissimo.
“Per carità”- replicherebbero in molti (e lo hanno fatto puntualmente anche al residence Ripetta) – “la lettura deve essere un piacere e il piacere della lettura a scuola non è di casa. Si sa che fine fanno i libri che si leggono a scuola. Uccisi dalla noia e dal didattichese…”
“Scusate, ma non s’era detto che la responsabilità del disamore per la lettura è degli insegnanti che non fanno leggere?”
“No, guardi che ha capito male. La colpa è proprio degli insegnanti che fanno leggere uccidendone il piacere…”
A voler andare a fondo della misteriosa contraddizione che vede gli insegnanti sul banco degli imputati con una duplice accusa – non far leggere e far leggere – il grande accusato della mortifera azione sui lettori virtuali sembra essere l’unico libro sopravvissuto alla catastrofe della lettura della scuola superiore.
Tra le indicazioni ministeriali c’è infatti una sola prescrizione, ormai sbiadita nel tempo e valida solo per il biennio delle superiori. I promessi sposi. Incubo delle memorie scolari.
Ed ecco il nodo di quel singolare processo didattico che trasforma il libro in un mattone inutile anche per il mercato edilizio. Proprio il romanzo popolare che Manzoni aveva concepito per tutti, sin per le fanciulle, e che De Sanctis ritenne buono per le scuole, nell’ottica della formazione di una coscienza nazionale che passasse attraverso una letteratura impegnata sul piano etico e civile oltre che sulla questione della lingua.
Peccato per quel grande libro che andrebbe letto almeno un paio d’anni dopo rispetto alla prescrizione ministeriale che lo colloca nella fascia dei quindici anni.
Peccato che sia distrutto dalla solitudine. Peccato che sia sottoposto ad accanimento terapeutico da parte degli insegnanti che lo trasformano in una palestra di propedeutica letteraria.
Perché proprio quel libro e non un altro? Meglio ancora, perché solo quel libro?
Obbligati a quell’unica lettura, i professori inconsapevolmente lo sbranano in sottili analisi per insegnare agli studenti riottosi la lingua, le tecniche narrative e retoriche fino a sfinirli.
Dopo aver letto quell’unico libro durante il biennio, i professori negli anni successivi della scuola superiore possono utilizzare solo i manuali e non troppo pesanti, per carità.
Far leggere o non far leggere? Come se ne esce?
Si può conciliare l’educazione alla lettura con il piacere della lettura in aule che non pochi considerano più simili a delle celle? Certo, si potrebbero arredare le aule con divani, poltrone, luci soffuse, e cacciarne via i professori, che nella degustazione mistica del libro giocherebbero, secondo i più, una parte negativa.
Storica la questione del piacere della lettura. Risale ai tempi gloriosi in cui si discuteva, tra strutturalisti e non, in nome di una passione letteraria che accomunava critici e scrittori e, con loro, la manovalanza scolastica all’epoca più accreditata di oggi. Un’epoca in cui molti illustri italianisti e filologi, da Alberto Asor Rosa a Maria Corti, non dimenticavano di essere venuti dalla gavetta dei licei e certo un prof non si vergognava del suo mestiere come accade oggi. Dimenticando che il modo di affrontare il problema del libro e della lettura è sconfortante per il difetto di informazione che muove le istituzioni pubbliche verso obiettivi che molti ritengono sbagliati. Come una falsa partenza che induce i più a colpevolizzare gli attori di una commedia che non hanno scritto loro.
I problemi da risolvere
Proviamo a distinguere due ordini di problemi.
Uno è territoriale e riguarda l’assoluta disomogeneità geografica, economica e sociale del territorio italiano e di conseguenza delle sue strutture di servizio portanti.
I lettori scarseggiano nelle aree geografiche meno urbanizzate e disagiate. In alcune il libro è letteralmente assente, semplicemente perché mancano le librerie, le biblioteche statali e comunali, spesso anche le edicole. Poche o nulle, ovviamente, nei luoghi più remoti, anche le attività di promozione della lettura. Molte delle quali vengono premiate proprio dall’Istituto per il libro, attraverso una selezione dei progetti migliori. Una delle iniziative premiate più originali, ad esempio, era realizzata con un’ape che caracollava sulle montagne, carica di libri di ogni genere, tra i paesini più sperduti di una regione del Sud.
Il vero problema, però, è di tipo istituzionale e politico e potrebbe essere risolto se si prestasse una maggiore attenzione al libro e alla lettura, analizzando a fondo la situazione e provvedendo con poche e opportune riforme. Basterebbe prendere come riferimento la tanto decantata Europa: la Francia e l’Inghilterra, per esempio, dove i problemi sono di altro ordine e forse più gravi dei nostri, ma il libro e la lettura restano al centro delle cure e dell’attenzione delle strutture pubbliche preposte, come testimoniano in concreto le notevoli risorse che vengono stanziate.
Proviamo a pensare cosa si potrebbe fare anche da noi se si cominciasse realmente ad attuare una politica di pronto intervento. Si potrebbe, ad esempio, ipotizzare di:
– Dare precise indicazioni sulla lettura all’interno dei curricola di ogni ordine e grado, fino a coprire la fascia degli studi superiori e universitari;
– Creare e potenziare le strutture logistiche per favorire il libro e la lettura, vale a dire le biblioteche, non solo quelle statali e comunali, ma, anche e soprattutto, quelle scolastiche, attualmente le più neglette;
– Rivedere l’organizzazione dello studio e del lavoro all’interno degli edifici scolastici per consentire una vera fruizione del libro, che passi non solo attraverso la formazione canonica ma che entri anche nel tempo libero.
Per quanto riguarda il primo problema, la mia idea è che basterebbe dare precise indicazioni sulla necessità formativa della lettura, e quindi semplicemente “prescriverla”, senza curarsi delle critiche di quanti pensano che debba esser solo un “piacere” riservato alle anime belle.
Per quanto riguarda il secondo problema, l’Italia è l’unico paese europeo che non prevede più, ormai da anni, la figura del bibliotecario scolastico. I pochi bibliotecari sopravvissuti ai tagli dell’organico, spesso provenienti dai ruoli dalla provincia, a volte professori distaccati, sono stati quasi tutti assegnati al personale Ata delle segreterie, o semplicemente sono tornati a insegnare. Di conseguenza le biblioteche scolastiche sono affidate alla discontinua attività di docenti in servizio pieno nella didattica e, nonostante le belle iniziative e i miracoli della buona volontà di molti, sono pressoché lettera morta.
Terzo problema. L’Italia è l’unico paese europeo in cui vige un regolamento diffuso che non concede agli studenti e ai docenti nessuna libertà di movimento all’interno degli edifici scolastici. Come a dire che, anche se le biblioteche fossero pienamente funzionanti, studenti e docenti non potrebbero frequentarle, né di mattina, né di pomeriggio, e non solo per le carenze di spazi e di personale già segnalate. In Italia, infatti, le lezioni si svolgono sempre nella stessa aula, in cui si sosta per cinque o sei ore di seguito e senza intervalli tra un’ora e l’altra di lezione, tranne le eccezioni dell’educazione fisica (e anche qui si aprirebbero casi pietosi), delle scienze o dell’informatica, raramente delle lingue.
Basti dire, a riprova di ciò, che, secondo il nostro ordinamento scolastico, quando un professore è assente, la classe deve essere “coperta” (il gergo scolastico la dice lunga sul senso) da un altro docente, chiamato a svolgere funzioni di sorveglianza.
I libri di lettura professori e studenti se li portano da casa, se vogliono. A piacer loro.
E a volte anche un po’ di straforo, come si è detto, rispetto al lavoro didattico canonico. Inutile aggiungere che, in queste condizioni di disagio strutturale e funzionale, si riduce qualunque campagna di acquisti e la promozione della lettura diventa il più delle volte una forma di comunicazione spettacolare in cui il grande assente è proprio il libro.
Le buone pratiche…
Che i lettori calino non sorprende più di tanto, se la pratica della lettura viene avvertita solo come il veloce intrattenimento di chi non vuol perdere tempo e se, nell’ottica del mercato, i libri proposti dalle case editrici sono sempre più allineati su questa lunghezza d’onda.
I professionisti della scrittura piana e veloce, giornalisti e sceneggiatori, sono infatti gli attuali veri protagonisti del mercato editoriale, in una nobile gara tra chi scrive un libro in una settimana e chi lo legge in un’ora sull’autobus, più o meno come leggerebbe un quotidiano.
È indubbio che chiunque ami realmente la musica desideri conoscerne il linguaggio. Perché mai non dovrebbe valere lo stesso principio per la lettura? Conciliare il sapere con il piacere è pratica troppo antica per essere spiegata.
Le “buone politiche di prevenzione” vorrebbero un uso massiccio del libro all’interno delle scuole in vari momenti e con diverse funzioni. Da un lato, non si dovrebbe rinunciare alla formazione e all’apprendimento in nome del piacere, mentre, dall’altro, ovviamente non si dovrebbe rinunciare al piacere in nome della formazione e dell’apprendimento. E soprattutto dovrebbero esistere gli spazi deputati alla lettura, attualmente pressoché inesistenti: le aule specialistiche, la biblioteca di classe, una biblioteca scolastica funzionante, alla quale non basta avere il catalogo in rete o dei professori volontari per svolgervi delle attività, quando mancano le condizioni primarie di partenza di cui si è qui ampiamente discusso.
A riprova di quanto le buone pratiche diano buoni risultati basta osservare, nella ricerca dell’Ipsos, il numero dei lettori di buona istruzione e buon reddito che cresce, passando da 27 a 29 milioni, soprattutto in centro Italia e in particolare a Roma, dove evidentemente si concentrano molte iniziative istituzionali e commerciali.
E’ vero, ad esempio, che a Roma le biblioteche pubbliche, specialmente quelle comunali, distribuite capillarmente in tutti i quartieri, sono piene di giovani in tutte le ore del giorno. Nessuno riflette a sufficienza sulle ragioni che spingono tanti giovani a frequentarle, quasi sempre gli stessi usciti pochi anni prima dal liceo dietro l’angolo. Basta osservare, ad esempio, il movimento della biblioteca Rispoli lungo via della Gatta, a Roma, e l’assenza di studenti all’interno della biblioteca scolastica di uno storico liceo, a pochi passi di distanza.
Sulle librerie cittadine, poi, cosa dire se non che aumentano, che sono sempre più belle e affollate di gente di tutte le età, che sono accoglienti, ben fornite e che quindi attraggono come una calamita? Libri impilati con copertine variopinte, scaffali e scaffali ripartiti per generi, banchi stracolmi e accessibili al lettore curioso che, prima di comprare, vuol leggere l’inizio o il risvolto di copertina. L’angolo per le presentazioni e spesso quello del bar con i tavolini per leggiucchiare comodamente bevendo un caffè.
Forse è venuto il momento di cominciare a sognare che tutto questo avvenga anche nelle aule scolastiche e universitarie, dove oggi circolano solo pacchi di fotocopie e manuali a brandelli.
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