Autore
Jolanda Bufalini
Annarosa Mattei, Sogno notturno a Roma (1871-2021), Roma, La Lepre Edizioni, 2022, pp. 355
Era destino che Roma diventasse Capitale?
Come in un teatro di figura, in una Roma notturna illuminata dalla luna, fra antiche mura e misteriosi giardini cinque ombre procedono “con passi diversi ma perfettamente sincronizzati”. Il percorso è tutto dentro quella che per molti secoli è stata la città, quando il Colosseo delimitava il confine con la campagna: piazza Venezia e piazza San Marco, la gemella piazza intitolata alla Madonna di Loreto, il Collegio Romano, palazzo Doria, la Galleria Sciarra, Santi Apostoli, via dei Fori Imperiali, il Colle Oppio.
Racchiusi in una bolla spazio-temporale, i cinque, 2 umani e 3 animali, usufruiscono dei poteri magici di Gregorio, gatto daimon e nume tutelare della città dai tempi di Iside, la cui effige dilavata e corrosa dai secoli è ancora intuibile all’angolo di un muro perimetrale di palazzo Venezia, statua parlante popolarmente ribattezzata Madama Lucrezia.
La magia consente a questo eterogeneo gruppo di pellegrini del tempo di superare le difficoltà linguistiche e di comprendersi l’un l’altro, scavalcando le barriere mentali che di consueto si frappongono alla comunicazione fra specie diverse.
Può sembrare, all’inizio, che la combriccola sia imparentata con la saga di Harry Potter creata da J.K Rowling ma ben presto si capiscono motivazioni interne e più profonde. Il gabbianello Leopoldo, ad esempio, appartiene a una stirpe detestata perché migrante e arrivata da poco, è “aggressiva” – dicono – “razzola nella spazzatura”, mentre nessuno nota la trepidazione e l’attenta cura che le famiglie dei gabbiani dedicano ai loro piccoli. E, forse ancora più rilevante, gli animali possono insegnare qualcosa agli umani: per loro, ai quali è preclusa la comprensione delle lettere dell’alfabeto, si spalanca il grande libro della natura.
Nell’antichissima città dove le stratificazioni inglobano il sacro delle civiltà precedenti, il libro si amplia dalla natura alle pietre e all’archivio segreto che le vestigia custodiscono.
Gaia, la veemente Gaia, con una cartella rossa e un I-Pad su cui scrupolosamente appunta ogni particolare di ciò che vede e sente, è l’alter ego della narratrice che compare con la sua voce diretta negli 8 “intermezzo” del racconto.
Gaia partecipa in parte della natura demonica del gatto Gregorio ma è frenata dall’irruenza della sua indignazione, dalla rabbia che la contrappone a chi perpetra la devastazione del cuore antico di Roma, quello da cui tutto è nato. Virginia Woolf, forse, non lascerebbe passare alcune delle sue tirate, lei che nel geniale Una stanza tutta per sé, raccomanda di procurarsi 500 sterline annue e una stanza con lucchetto, perché le donne possano lasciare fuori dalla porta il rancore verso i pregiudizi che tormentano l’aspirazione delle donne alla scrittura, alla cultura, alla vita indipendente e piena. Ma anche Gaia riesce, mettendo sotto controllo la sua esuberante vis polemica, a lasciarsi andare al flusso della vera scrittura, come quando si rivolge ai due lecci di piazza San Marco, minacciati dagli sterminatori di alberi, killer prezzolati da Comune e Soprintendenze: “Molto cari mi sono i due grandi lecci che sostano abbracciati nell’angolo del giardino di fronte a uno degli ingressi di Palazzo Venezia. Mormorano da sempre storie infinite agli storni che in autunno li popolano, ai rondoni e alle rondini, quando raramente capita il miracolo che se ne vedano in primavera, ai cani che attraversano il prato con i loro compagni umani, quasi sempre troppo disattenti per comprendere le loro verdi parole trascorrenti fra i rami e le foglie. Invece la coppia di gabbiani che nidifica sul davanzale di una delle finestre del museo le intende bene e considera i due lecci parte integrante della numerosa famiglia e del luogo da loro scelto per mettere su casa. Uno più grande l’altro appena un po’ più piccolo, i due lecci sono cresciuti vicinissimi e negli anni hanno così fittamente intrecciato i loro rami da creare un’unica chioma indistinta come fossero una coppia di amanti. Li ho salutati ogni giorno per migliaia di giorni e li considero da sempre miei amici tra i più sapienti e affidabili. Ogni volta che passo sotto le loro chiome loquaci rallento il passo per intenderne meglio il confidente brusio…”(pag.67). Eppure la vemenza di Gaia è la spinta necessaria non solo all’invettiva ma alla ricerca.
Il timido Marcello, bibliotecario archivista del Liceo Ennio Quirino Visconti, e il gatto Quirino, che di solito riposa appollaiato sul pie’ di marmo, il piede della colossale Iside, la Madama Lucrezia di piazza San Marco, completano il gruppo.
Il sogno-cammino fa tappa proprio al Collegio Romano, dove ha sede il primo Regio ginnasio liceo della Capitale ma che era stato il Colegio de miras universales voluto da Ignazio di Loyola, centro di irradiazione della ratio studiorum, il metodo educativo che rese celebri i gesuiti in tutto il mondo e che, per secoli, diede al Collegio Romano una fama che nulla aveva da invidiare a Oxford e Cambridge. Qui Galileo espose le sue teorie, portando ad argomento le osservazioni dirette fatte nel grande libro della natura.
Dopo la presa di Roma la confisca del bene ecclesiastico portò alla dispersione dello straordinario patrimonio scientifico lì custodito, a cominciare dalla Wunderkammer di Athanasius Kircher.
Il gruppo, dopo aver bevuto alla fontanella con il facchino e la sua borraccetta, da alcuni attribuita a Michelangelo, da via del Caravita raggiunge il confine di via del Corso, fa sosta alla Galleria Sciarra: incantevole esperimento realizzato dal principe imprenditore Maffeo Barberini Sciarra per stare al passo con i tempi della Roma moderna. Si materializzano nella Galleria, dove un tempo lavoravano i giornalisti de La Tribuna, i fantasmi di D’Annunzio e Pirandello, Scarfoglio e Matilde Serao, protagonisti di una breve stagione in cui Roma provò ad essere capitale culturale.
Da Santi Apostoli, i due gatti, il gabbianello, i due umani si inerpicano, attraverso palazzo Colonna per i giardini misteriosi che salgono fino al Quirinale, sulle tracce di Serapide, “dio sincretico, a cui tutti, di ogni religione potevano rivolgersi, senza distinzione di genere, classe, censo, razza, e certamente neanche di specie. Dio della luce e dell’ombra, della fecondità e della salute”.
Ad ogni passaggio corrisponde un capitolo di questa sorprendente guida di una Roma arcana nella quale si combinano epigrafia e pettegolezzi d’epoca, storia moderna e antica, i sonetti del Belli e Orazio.
Il gruppo torna da dove era partito, nel non luogo di piazza Venezia per affrontare la ferita dei Fori Imperiali, soli 800 metri fino al Colosseo, che sembrano un’eternità nello sconforto dei transennamenti, dei cantieri, degli scavi incomprensibili che hanno manomesso il giardino di piazza Santa Maria di Loreto, dei dislivelli, delle pedane, degli sbarramenti in cemento, dei tristi monconi di tronco di pino e alloro. Non c’è più nulla de “l’idea di archeologia verde che ispirava i progetti di Giacomo Boni, Corrado Ricci, Antonio Muñoz”.
A parlare è il gatto Gregorio: Le chiese dei Santi Cosma e Damiano e di San Lorenzo in Miranda “edificate entrambe sopra due antichi templi pagani, il tempio di Romolo e il tempio di Antonino e Faustina, li conservano e custodiscono perfettamente solo perché li hanno integrati in un continuum storico, di cui questa città è stata sempre sapiente maestra, almeno fino alla cesura segnata dalla sua trasformazione in capitale. Se conservare vuol dire integrare il passato al presente, come sappiamo bene noi daimon, abituati ad attraversare il tempo e a ritrovare i nessi che uniscono in perpetuo dialogo le donne, gli uomini, le imprese di epoche diverse e lontane. Qualcosa, anzi molto, si perdeva nella perenne sovrapposizione della città a se stessa, ma in realtà mai nulla moriva e ogni colonna, statua, trabeazione, epigrafe, continuava a vivere nella perpetua riutilizzazione di una muratura, di una parete, di un architrave portante, dello stipite di una porta, della cornice di una finestra. Iside parlava ancora, poggiata direttamente sullo sterrato di piazza San Marco, e parlava ancora la sua gatta in cima a un cornicione. Come parlano ancora oggi le antiche colonne delle chiese romane, così spesso diverse l’una dall’altra, ma tutte vive nei luoghi comunque sacri alle divinità, che sono sempre le stesse, miei cari, qualunque nome venga loro dato, secondo la tradizione propria di Roma”. (pag.327).
La tesi che attraversa il libro di Annarosa Mattei, attraverso il sogno dei suoi singolari personaggi, è molto forte, e rinverdisce gli argomenti critici che accompagnarono i modi con cui si compì l’unità d’Italia e la nascita di Roma Capitale.
I buzzurri piemontesi occuparono la città senza capirla, senza conoscerla, senza avere la curiosità di comprendere i segreti della sua storia millenaria. Il termine buzzurri non è usato a caso, così li chiamavano i romani, distinguendoli dai burini del contado e dai cafoni provenienti dal Regno di Napoli. Portatori di un’idea astratta di modernità, i piemontesi operarono lo sventramento nel cuore stesso della città antica, demolendo i quartieri medievali che circondavano, scendendo da Monti e dal Celio, il Campidoglio, per fare posto alla montagna di marmo bianco del Vittoriano. Un’idea torinese di città, ma ignoravano che Roma non è mai stata castrum, non era divisa in cardo e decumano, la forma urbis somigliava a una stella.
Le ferite inferte da Mussolini con la costruzione della via dell’Impero e l’abbattimento della collina Velia furono in continuità con quelle inferte dai piemontesi con la costruzione del monumento che sbancò tutto, intitolato a un sovrano che continuava a chiamarsi Vittorio Emanuele II, pur essendo diventato il primo re d’Italia.
Quelle radicali distruzioni che né la Roma imperiale né la Roma papale avevano mai compiuto, furono mitigate dall’idea di archeologia verde che aveva ispirato Giacomo Boni, Corrado Ricci, Antonio Muñoz e l’architetto dei giardini Raffaele De Vico, che progettò i giardini di piazza Venezia e quelli del Colle Oppio. Pini, mirti, allori, lecci. Sicché per un cinquantennio si è potuta percorre a piedi la via dei Fori, anche quando le sue quattro carreggiate erano aperte al traffico delle auto, all’ombra di un piccolo bosco urbano, un po’ come avviene lungo la passeggiata archeologica di Caracalla.
E ora? Le ultime pagine del libro sono un accorato grido di dolore fra i ponti e le passerelle, i gradini e i gradoni “disposti senza nessuna coerenza progettuale” che rendono accidentato il percorso della via dei Fori, le chiese isolate dai fossati di scavo, le torri e le gru dei lavori per la metropolitana e per sorreggere la basilica di Massenzio che nessuno guarda più, le cui fondamenta messe a nudo sono destabilizzate. Il progetto di una “lama” di cemento ed acciaio al posto della via, per risolvere il problema del dislivello fra la città attuale e quella antica. Una metafisica che renderà l’area archeologica centrale ancor più estranea alla città viva, per lasciarla a disposizione di scavi che fin qui hanno portato alla luce poco o nulla, se non le cantine degli edifici abbattuti dal fascismo. La vemente Gaia si sconsola allineando le devastazioni dell’Italia democratica con quelle del magniloquente imperialismo fascista e con la retorica sabauda. Rimpiange il tempo in cui i cittadini percorrendo via della Consolazione, demolita dal buon sindaco Petroselli, potevano godere della visione gratuita dei Fori. I nomi hanno un valore e non è un caso, accusa, che non si parli più di parco archeologico ma di area. Non fosse mai che la parola parco evocasse quell’idea di bosco, di essenze odorose, di giardino di cui si vanno cancellando le tracce. [i]
[i] È molto interessante, per la sua peculiarità, la bibliografia di Sogno notturno a Roma posta a conclusione del volume