Una recensione di Marcello Sorgi che ha colto una straordinaria analogia tra Il sonno del Reame e Salò e le 120 giornate di Sodoma di Pasolini
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Se il tiranno è un alibi per il popolo
di Marcello Sorgi
in “La Stampa” del 23 gennaio 2014
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Il principe di un antico reame, ricco di storia e di testimonianze artistiche di altre epoche felici,
assume poteri assoluti e decide, incontrastato, che è l’ora di liberarsi di tutto il patrimonio culturale
custodito in scuole, biblioteche e musei. Commercializzarlo, venderlo, metterlo a frutto, questo è il
suo programma, reso più urgente dal dissesto finanziario dello Stato, che la liquidazione dei beni
artistici consentirà di arginare.
Gli unici che si oppongono allo scempio sono cinque stravaganti personaggi, armati quasi solo della
loro buona volontà (oltre che della loro cultura): ma a guardarli, si direbbe non ce la possano mai
fare. Tuttavia il grande maestro, il gatto sapiente, l’antiquario che va e viene dall’aldilà, la donna
inquieta e il suo compagno non si arrendono. A loro toccherà scoprire l’incredibile verità che a poco
a poco si palesa agli occhi: la responsabilità della distruzione del prezioso insieme di opere,
ancorché in parte abbandonate, o conservate (si fa per dire) nei magazzini, non è solo del principe,
insensibile al loro valore, ma anche della gente precipitata nell’inerzia e afflitta da una specie di
oblio. Un popolo che vive la tirannia del sovrano e la minaccia di realizzare il piano, frutto della sua
stoltezza, come una sorta di alibi e di fuga collettiva dalle proprie responsabilità di cittadini e
testimoni della civiltà minacciata.
Scritto come un romanzo, con uno stile musicale e poetico e un’accorta selezione di citazioni
classiche, Il sonno del Reame (Oscar Mondadori, pp. 248, € 14) di Annarosa Mattei è in realtà un
apologo sul nostro tempo. Laddove descrive il disfacimento del regime come una forma di
precipitazione collettiva, ricorda un po’ Salò o le centoventi giornate di Sodoma di Pasolini, che anche
lui non parlava affatto solo del passato. Così che quando scompare il principe Gaudenzio, che
somiglia, sebbene in modo caricaturale, a Berlusconi, emerge tragicamente la terribile colpa di chi
si è rassegnato al disastro e non vuole, né forse può, porvi rimedio. Con una piccola forzatura, si
può ritrovare in questo romanzo una vibrante, disincantata, e a tratti angosciosa, descrizione dei
nostri giorni, fatti di sonno dell’indifferenza che prelude a una (ormai prossima) morte della
storia.
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