La torre di Babele
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sabato 17 agosto 2013
Via dei Fori, via dai Fori
Nei giorni scorsi il sindaco di Roma, Ignazio Marino, ha dichiarato di voler avviare un progetto finalizzato a “far scomparire” quella strada tanto vituperata che è Via dei Fori imperiali1. Si tratta di una delle strade attualmente più rappresentative e identitarie della città che ha fatto parlare di sé da sempre, da quando è stata realizzata in pieno ventennio fascista secondo un preciso programma di uso pubblico della storia2, passando per il dibattito della Roma illuminata dei sindaci Argan, Petroselli e Vetere – con tanto di istituzione dell’Assessorato agli interventi sul centro storico guidato da Carlo Aymonino3 – fino ai nostri giorni con tanto di progetti per la linea metropolitana C e conseguente sistemazione dell’area.
Senza entrare nel merito di quel lungo e acceso dibattito4, si propone qui qualche riflessione sullo stato presente dei Fori e sul loro ipotetico immediato destino.
Pare ragionevole la trasformazione dell’area – laddove la trasformazione sia intesa come un mezzo per la conservazione – andando incontro alle esigenze di fruibilità, di “godimento”, di contemporaneità; ma allo stesso tempo va messo in luce quello che è probabilmente il più serio dei problemi a monte: la mancanza di un progetto archeologico circa l’area archeologica più grande del mondo, e dunque la mancanza di una precisa assunzione di responsabilità culturale. Vale la pena richiamare le parole di Andreina Ricci: “Ora quest’area […] sembra un campo di macerie incomprensibili; e tale resterà con qualsiasi intervento […] Fintantoché gli archeologi non studieranno un progetto – di archeologia prima che di architettura – per la messa in valore di quell’area, fintantoché non formuleranno proposte chiare su come e dove operare, cosa lasciare in vista, cosa ricoprire, cosa e come integrare per rendere leggibili quelle macerie, fintantoché non si assumeranno delle precise responsabilità scientifico-disciplinari (proponendo ad esempio l’eliminazione dei brandelli delle fasi successive a quella imperiale per rimettere in evidenza i contorni dei fori, oppure, al contrario, in quali zone mantenere resti delle fasi che si sono stratificate successivamente) nessun progetto architettonico-urbanistico potrà essere efficace, nessuna soluzione politica e nessuna scelta architettonica potranno attribuire qualità a quello spazio in assenza dei un’idea progettuale dalla quale amministratori e architetti possano prendere le mosse”5.
Ciò premesso, cosa significa dunque rimuovere questa cesura fra Foro romano e Fori imperiali? Concettualmente si tratterebbe di ripetere l’operazione del ventennio fascista tanto contestata. La costruzione dell’allora Via dell’Impero, operando un netto giudizio di valore, ha previsto la demolizione e lo sventramento di tutto il tessuto architettonico stratificatosi nei secoli sull’area dei Fori in vista della scelta – questa sì progettata, al di là del fine – di collegare con un’arteria “monumentale” il Colosseo a Piazza Venezia. Giudizio di valore, dunque, che al netto del fine sarebbe assunto decidendo di rimuovere Via dei Fori per riunificare l’intera area archeologica ottenendo un solo, grande parco archeologico, citando ancora il sindaco.
Occorrono a questo punto due precisazioni. La prima riguarda la natura di qualunque intervento su una delle aree archeologiche più delicate del mondo: si tratterebbe certamente di un intervento di restauro, considerando questo come frutto di progetto di architettura con forti specificità, ricordando l’unità di metodo non solo fra le arti ma anche fra le scale stesse del restauro, da quella paesaggistica a quella architettonica e di dettaglio passando per quella urbana. Restauro inteso come restituzione critica di senso a un bene, portatore di precisi valori storico-estetici, da tramandare al futuro in un’ottica di leggibilità, appunto, salvaguardandone l’autenticità materiale e i valori figurativi ma anche rispettandone le stratificazioni: “progettazione di e per il restauro, quindi, ma su precisi binari storico-critici, con intenzionalità eminentemente conservativa e accettando come dato di partenza un concetto d’autenticità diacronico, dove la ‘verità’ storica con la quale confrontarsi è il frutto della stratificazione, spesso plurisecolare […], non la sola presunta facies d’origine; dove la ricerca del sempre più antico, a scapito delle testimonianze accumulatesi nel tempo, non ha senso ed è dilapidazione del patrimonio storico, come lo sarebbe strappare le pagine giudicate meno importanti oppure parzialmente riscritte d’un antico codice”6.
La seconda precisazione riguarda l’inibizione di molta parte dell’opinione pubblica – e di numerosi operatori – circa la natura del frammento; ciò che appare sconnesso, frammentario, ricco di soluzioni di continuità, viene percepito come qualcosa da riattaccare, ricomporre anche con qualche forzatura, come istintivamente verrebbe da fare con i cocci di un vaso rotto e un tubetto di colla. Ma siamo assolutamente certi che la reintegrazione di un’immagine debba essere necessariamente fisica e debba privilegiare una sola fase storica, scelta accuratamente e non senza rigore “filologico” ma pur sempre arbitrariamente? Né può trattarsi di recuperare la bellezza dispersa di un centro antico, imperiale in questo caso: non siamo né dèi né imperatori; non è un caso che Raffaello e, ancor più, Giulio Romano abbiano rielaborato criticamente – e non senza una dose di raffinata ironia – codici e linguaggio del passato senza riproporli pedissequamente.
Tutto ciò pone dei dubbi sul perché rimuovere Via dei Fori. Non da meno sono le perplessità sul come. Ancora Marino pensa saggiamente a un comitato internazionale per la scelta delle modalità tecniche dell’intervento ipotizzando al contempo diversi scenari: rimozione totale, rimozione parziale lasciando un lacerto come percorso ciclopedonale e mostrando le stratificazioni dell’arteria stradale (a questo proposito il sindaco allude a una TAC, essendo più avvezzo al campo medico; tuttavia una TAC non richiede lo sventramento di un paziente per analizzarne in profondità i tessuti, in altri termini è un’indagine non distruttiva – per rimanere nel gergo architettonico – e non una stratificazione scelta anche in questo caso arbitrariamente e mostrata a beneficio di futura memoria, quasi a volersi ripulire la coscienza: quello che c’era non c’è più ma sappiate che era così …). Dubbi, incertezze enormi sulle modalità tecniche, per non parlare di quelle economiche in un Paese, qual è il nostro, che certamente non sembra al momento affidabile circa operazioni imponenti di questo tipo nonostante gli sforzi del ministro Bray.
Accettata la pedonalizzazione della strada e sottratto il Colosseo al ruolo di gigantesco, per quanto prestigioso, spartitraffico, cosa bisogna aspettarsi? Se Via dei Fori fosse eliminata, ne risulterebbe davvero più leggibile il più grande parco archeologico del mondo che si verrebbe così a configurare? O ci si ritroverebbe davanti a una quantità sterminata di nude pietre7, coperte di tanto in tanto da strutture provvisorie, ammassate le une accanto alle altre senza rendere giustizia alla loro storia oltre che alla loro estetica? E Via dei Fori non è essa stessa un elemento fortemente identitario della città contemporanea?
L’ex soprintendente Adriano La Regina, dichiaratosi favorevole oggi al progetto di Marino8, scriveva in passato che “il grande parco archeologico compreso entro il perimetro delle Mura aureliane di fatto esiste già… e occorre solamente organizzarlo diversamente. Occorre in primo luogo sottrarlo alla sua condizione di spazio utilizzato per l’attraversamento veicolare e, in alcuni ambiti, come riserva di esclusivo interesse turistico. […] Si dovranno nuovamente rendere agibili gli spazi già in antico destinati all’uso pubblico: le piazze quali luoghi di sosta e di attraversamento, le strade come viabilità ordinaria pedonale”9.
Senza avviare operazioni titaniche dalle premesse già fragili e dagli esiti altamente incerti, sarebbe prudente accettare il frammento, la cesura, la storia di quest’arteria stradale sfruttandola come percorso di conoscenza dei Fori, attrezzandola opportunamente (al contrario di quanto accade oggi). Ne risulterebbe un percorso narrante in grado di far leggere le storie – non un’unica storia – dei Fori, non una strada trafficata com’era fino a pochi giorni fa né un marchio infame da rimuovere a tutti i costi. Per tornare ai principi informatori del restauro, il minimo intervento appunto. Questo sì sarebbe un accorto uso pubblico della storia, oltre che dei finanziamenti.
- Intervista di Lucia Annunziata a Ignazio Marino per Huffington Post, 10 agosto 2013.
2. Si fa riferimento all’efficace espressione utilizzata da Andreina Ricci nel saggio Attorno alla nuda pietra. Archeologia e città tra identità e progetto, Donzelli Editore, Roma, 2006.
3. Carlo Aymonino, Progettare Roma capitale, Editori Laterza, Bari, 1990 e Raffaele Panella, Roma. Città e Foro, Officina Edizioni, Roma, 1989.
4. La storia “moderna” dei Fori è tracciata in Italo Insolera, Francesco Perego, Archeologia e città. Storia moderna dei Fori di Roma, Editori Laterza, Bari, 1983, con significativi aggiornamenti nelle edizioni successive. Una sintesi efficace del dibattito è rintracciabile nella postfazione di Mauro Baioni al libro di Antonio Cederna, Mussolini urbanista. Lo sventramento di roma negli anni del consenso, 2^ edizione, Corte del Fontego, Venezia, 2006, pubblicata su Eddyburg, il blog di Edoardo Salzano.
5. Intervista di Silvia Moretti ad Andreina Ricci, in D’Architettura n.33, agosto 2007.
6. Giovanni Carbonara, Restauro architettonico: principi e metodo, Mancosu Editore, Roma, 2012.
7. L’espressione è ancora di Andreina Ricci nel già citato saggio.
8. Intervista ad Adriano La Regina, Corriere della Sera, 3 agosto 2013.
9. Si veda Maria Bugli, Roma: continuità dell’antico. I Fori imperiali nel progetto della città, Electa, Milano, 1981.
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