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Una storica dell’arte autorevole interviene sulla riforma dei Beni Culturali

Ecco perché la riforma rischia di danneggiare le nostre città d’arte
Mina Gregori
18 marzo 2015 LA REPUBBLICA

CARO direttore, siamo dunque arrivati al tempo finale di questo vero e proprio terremoto che ha dato un altro volto al ministero dei Beni culturali, e soprattutto alla sua amministrazione periferica che però ne costituisce l’ossatura determinante. A un primo sguardo agli organici si è colpiti da due aspetti. Da un lato risulta evidente l’abolizione delle direzioni regionali, che avevano generato tutta una serie di confusioni, sovrapposizioni e altro, e delle quali ben pochi possono rimpiangere la scomparsa. Il nuovo vocabolo scelto per designare i funzionari che sostituiranno i vecchi direttori è quello di segretari, termine abbastanza curioso in questo contesto e che fa inevitabilmente pensare al mondo politico.

D’altro canto si è invece voluto riesumare la desueta (e inopportuna) espressione “Belle arti” per quanto riguarda le normali soprintendenze. Belle arti: espressione che tutti credevamo ormai confinata fra i vecchi ricordi dell’Italia giolittiana, o poco meno. Ma per giungere a questioni più sostanziali si noterà invece la conferma dell’istituzione di cosiddette “Soprintendenze ai poli (museali) regionali”. La separazione, già introdotta in passato, non sembra un’idea particolarmente felice visto il conflitto di competenze e l’inutilità di certe operazioni. Soprattutto nel delicatissimo settore delle mostre, delle quali nel nostro Paese si registra una crescita esponenziale, preferendo sempre e comunque le mostre alle esposizioni museali.

La prospettiva però più sconvolgente riguarda la scomparsa, da più parti annunciata e ora sancita dalle nuove nomine, di soprintendenze come Mantova e Modena e di uffici staccati come quelli di Cremona e di Ferrara, tutti organismi che soffrono da tempo di mali, per così dire, endemici, che andavano semmai conservati e rafforzati per l’enorme e risaputa importanza di questi territori. L’idea che i patrimoni di alcune delle corti più importanti, soprattutto culturalmente, in Europa debbano restare senza un controllo diretto specialmente nel territorio, lascia esterrefatti e angosciati. Generazioni di valenti storici dell’arte si sono, spesso eroicamente, confrontati con mille difficoltà per ottenere risultati a volte appena soddisfacenti, e nel momento in cui si nota una generale, sia pure confusa, ripresa dell’interesse di tante persone per i beni culturali e ambientali, questi dirigenti si troveranno ad affrontare da sedi lontane una battaglia con armi ancora più spuntate.

Ci lascia sinceramente sconcertati, inoltre, il fatto che a capo delle nuove soprintendenze Belle arti e Paesaggio siano stati posti essenzialmente gli architetti, i quali hanno già un ambito professionale già ben individuato e definito. Non si vede come possano sostituirsi a coloro che hanno una precisa competenza storico-artistica, fra l’altro col tempo sempre più complessa. Un altro aspetto importantissimo, a cui deve essere dato il massimo risolto, è la nuova situazione degli Archivi di Stato, a proposito dei quali si può notare come siano semplicemente scomparse direzioni come quelle che amministravano i documenti dei Gonzaga e degli Estensi, a Mantova e a Modena, mentre a Parma mancherà l’opera dei funzionari addetti al patrimonio farnesiano rimasto dopo le spoliazioni. Per finire non si può dimenticare per la sua grande storia una culla come Urbino che, a quanto sembra, da insigne capitale artistica risulterebbe privata, incredibile a dirsi, sia di soprintendenza che di direzione di Archivio di Stato.

L’autrice è storica dell’arte e accademica dei Lincei. Fondamentali i suoi studi su Caravaggio

 

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