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Renato Nicolini sulla cultura come "patrimonio sprecato"

Un po’ illusorio, forse, pubblicare su un blog questo articolo dell’amico Renato Nicolini, dato il contesto totalmente deculturalizzato in cui viviamo tutti noi, sia i consapevoli che gli inconsapevoli del disastro in corso. Paese immemore il nostro, fissato ormai sull’istante, incapace di conservare e promuovere l’arte, la letteratura, la musica: un processo accelerato negli ultimi anni che sembrano un’eternità irrecuperabile. Si obietterà che sono le ragioni dell’economia, del mercato, che è l’onda della globalizzazione a travolgere identità e tradizioni. Non lo credo affatto. L’unica nostra speranza di salvezza dal declino, che appare a molti, a troppi, inevitabile, sarebbe proprio la tutela della memoria di chi siamo e da dove veniamo. Ma come si fa a spiegarlo a chi non sa di non sapere?

Cultura, un patrimonio sprecato
Renato Nicolini
Il Manifesto— 14/9/2011

Il declino italiano degli ultimi vent’anni ha l’andamento della farsa; lo ha descritto perfettamente Paracult, il blob estivo di questi ultimi vent’anni, 1991-2001. La “sussidiarietà” ricorda il sussidiario, ha il nome regressivo e rassicurante da vecchio libro della stuoia nozionistica, ma la sussidiarietà all’italiana ha una storia precisa: la sanità privata (San Raffaele compreso), Muccioli e Don Gelmini, i soldi alla scuola privata, la privatizzazione dell’Università di eccellenza, lasciando allo Stato quella di massa, numerosi pasticci pubblico-privato. Dovremmo gridare, anche pagando il prezzo della rottura con vecchie bandiere, che siamo contrari a questa invocata etica dell’austerità. S’invocano sacrifici, ma si comincia sempre col tagliare la spesa dello Stato per la cultura. La cultura è la bestia nera, è intesa come sinonimo di spreco. Peggio persino del costo e dei diritti del lavoro. Lo dice Tremonti, ma anche Scalfari lo pensa, quando manda avanti Baricco a chiedere di spostare all’editoria quello che si dà allo spettacolo. L’Italia futura di Montezemolo parte dalla ritirata del pubblico dalla cultura, la cessione dei diritti d’immagine del Colosseo a Diego Della Valle (eppure già Orazio ammoniva “sutor nec ultra crepidem”[sic], “ciabattino non andare oltre la scarpa”) per la miserabile somma di 25 milioni di euro, è già la fotografia di quest’intenzione. Mario Resca ha preparato il terreno, con la sua idea che valorizzazione dei beni culturali coincida con l’aumento del numero dei biglietti venduti. Policarpo ufficiale di scrittura l’Italia dell’Ottocento l’avrebbero pensata cosi.
Al contrario, la sola via di salvezza dell’Italia oggi passa per la risorsa cultura L’investimento in cultura, checché ne pensi Tremonti, genera immediatamente una (piccola o grande, limitata alla vita delle città o estesa alla riconoscibilità di un paese nel mondo globale) crescita economica. Nessun altro tipo di spesa pubblica può produrre quest’effetto. E se poi pensiamo agli investimenti di lungo periodo, dove se non in Italia ci potrebbe essere un’università di eccellenza, capace di attirare studenti da tutto il mondo, sul patrimonio culturale, e sulla straordinaria tradizione di qualità della vita nelle nostre cento città? Dove ci potrebbe essere una scuola di formazione superiore, con ambizioni mondiali, per l’opera lirica, per il teatro, per il cinema? Siamo o non siamo il paese di Rossellini e di Bava, di Visconti, Strehler, Ronconi e De Berardinis? Se solo l’Italia si riallineasse alle scelte europee di Francia e Germania, che in modo diverso, attraverso lo stato centrale o le Regioni, investono grandi quote del proprio Pil in cultura. E se concepissimo le grandi opere come restauro del paesaggio e della bellezza del territorio e delle nostre città, altro che ponte di Messina e Tav! L’ironia maggiore è che spesso abbiamo creato un sistema di grandi attrattori culturali, e – già spesi centinaia di milioni di euro di denaro pubblico per creare il capitale fisso e l’immagine giusta – ce ne chiamiamo fuori. In questo Roma è davvero capitale. Non si fa a tempo ad inaugurare il Maxxi di Zaha Hadid che il Ministero dei Beni Culturali se ne chiama fuori e lo trasforma in Fondazione dalle scarse risorse economiche, strutturalmente incapace di reggere la corsa del Guggenheim, del Centre Pomipdou e persino di Bilbao, cioè la concorrenza. E qual è il futuro prossimo dell’Auditorium Musica per Roma, unica nostra azienda culturale di dimensione europea, in questi tempi di ritirata? Intanto il Macro, l’Azienda autonoma Palaexpò sono già offerti in svendita ai privati. Come il cane di Esopo, si lascia cadere in acqua quello che si ha, e si desidera quello che non si ha, con provvidenziale fiducia nel grande evento: Napoli 2013, Milano 2015, Roma 2020 che siano, inventandosi assurdità come il circuito di Formula 1 all’Eur, proponendosi di cementificare l’Eur come unica maniera di finanziare cantieri infiniti, il cui costo non si è mai stati capaci nemmeno di prevedere, altro che gestire. Ogni seria analisi sulla gestione della spesa pubblica per la cultura, anche attraverso aziende esternalizzate, sul modello dell’agenzia per il cinema francese, etc. – studi che pure esistono, elaborati negli ultimi vent’anni da economisti come Paolo Leon o Pietro Valentino, o da associazioni come quella per l’economia della cultura o Federculture – vengono disattesi o, peggio, ignorati. Invece resistono gli sprechi clientelari più chiaramente pubblicitari, come i milioni di euro buttati dalla Regione Calabria in spot sui Bronzi di Riace o per avere la diretta Rai di Miss Italia.

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